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Un fisco a puttane

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“Sa, io vado a puttane… così non devo parlare di politica, di film, di Proust; quindi siamo ‘felici e clienti’ “ diceva Woody Allen in un suo vecchio film. Un desiderio, quello di non dover fondare un incontro sessuale sul reciproco affabulamento, che, stando ai numeri indicati dall’Università di Bologna, accomunerebbe circa 2,5 milioni di italiani. Un numero considerevole, come del resto quello dell’esercito dei cosiddetti sex workers, i lavoratori del sesso, che si aggirerebbe – anche in questo caso il condizionale è d’obbligo, viste le oggettive difficoltà a reperire dati affidabili – intorno ai 25-30mila operatori.

La continuità storica della prostituzione sta lì a ricordarci che si tratta di un fenomeno sociale estremamente radicato; mentre i numeri ne testimoniano la rilevanza. In Italia, l’approccio giuridico è quello di tenere un occhio chiuso e l’altro aperto: con quello chiuso si nasconde l’entità e la necessità tecnica del fenomeno; con quello aperto si scova e sanziona il cliente (peraltro, per via dell’ambiguità del reato di “favoreggiamento”, sempre più frequentemente con ordinanze sindacali). La prostituzione è infatti paradossalmente legale ma non regolamentata.

Questa tendenza impregnata d’ipocrisia moralistica – ottusa quando si vuole combattere lo sfruttamento violento; ingiustificabile quando ci si trovi di fronte ad una libera scelta – non è tuttavia peculiarità del nostro paese. Siamo in pessima compagnia. Nel novembre scorso, la sinistra socialista francese ha proposto una legge che mira a combattere la prostituzione attraverso la penalizzazione dell cliente. La proposta, che è stata votata ed approvata a larga maggioranza dall’Assemblea Nazionale, dovrà essere discussa in Senato entro il prossimo giugno. E c’è il serio rischio che diventi legge, visto che la lotta contro la prostituzione è riuscita a fare il miracolo: mettere sotto la stessa bandiera puritana Partito Socialista e UMP.

Gli unici a fare una ostinata opposizione alla proposta di legge sono stati proprio loro, i sex workers, che, attraverso lo STRASS (il sindacato dei lavoratori sessuali), sono ripetutamente scesi in piazza per difendere il diritto ad esercitare la professione in condizioni dignitose. Sempre più frequentemente, sono gli stessi operatori del sesso a rivendicare la propria condizione e con essa il diritto di essere regolamentati. Il loro messaggio è chiaro e tondo: il fatto di vendere il proprio corpo, che sia maschile o femminile, riposa sul non negoziabile principio di autodeterminazione individuale.

Se il fenomeno – in Italia, in Francia ed altrove – è limpidamente inarrestabile, anche il volume d’affari che lo riguarda non sembra subire flessioni. Lasciando da parte le organizzazioni criminali che gestiscono una buona fetta del mercato (e che certamente non si combattono con un occhio aperto ed uno chiuso), il mondo della prostituzione è pieno di lavoratori del sesso autonomi, che svolgono la professione in casa o a domicilio. Sono le (o gli) escort, professionisti che offrono servizi talvolta estremamente costosi. I clienti pagano, loro incassano e lo Stato non vede un soldo. Del resto, le escort mica corrispondono le tasse. Non tutte, perlomeno.

Prendiamo il caso di Sandra Yura, cinquantenne brasiliana dal fisico ancora giovane. Intervistata dal Corriere, Sandra racconta di aver più volte tentato di regolarizzare la propria situazione fiscale ma di essere stata puntualmente respinta. Non esistendo infatti alcuna categoria nella quale è inquadrabile la sua attività di escort, le è sempre stata negata la possibilità di aprire una partita Iva. Ebbene, nell’ottobre 2012, Sandra riceve la visita della Guardia di Finanza; senza scomporsi, dichiara di essere una escort e mostra tutta la documentazione che attesta la sua professione. In base agli accertamenti compiuti dall’Agenzia delle Entrate, nel dicembre scorso le vengono notificate sanzioni e interessi per un totale di circa 50 mila euro. In sostanza, le viene riconosciuto lo statuto di “ditta individuale” e con questo tutti i relativi oneri fiscali.

Ed ecco il paradosso: lo Stato chiede a Sandra di pagare le tasse per un’attività non regolamentata. Ciò significa che lei ha il dovere di contribuire in proporzione al suo (elevato) reddito, ma non il diritto di essere riconosciuta come un lavoratore del sesso. Quindi niente assistenza sanitaria, ad esempio. Quindi niente garanzie per i clienti. Quindi, dal punto di vista dei diritti, tutto cambia per restare come prima. Per lei, perché i suoi colleghi continueranno ad esercitare come hanno sempre fatto, ovvero al riparo dalla morale e dal fisco.

Il caso di Sandra crea un precedente e potrebbe indurre un incremento dei controlli e dunque delle sanzioni. D’altronde, in questo momento c’è bisogno di far cassa. “Come sarebbe giusto – dice la escort brasiliana nell’intervista rilasciata al Corriere -, dovrebbero fare pagare le tasse a tutte quelle che fanno il mio mestiere. Si recupererebbero un sacco di soldi per la gioia delle casse dello Stato e dei tanti cittadini che da tempo chiedono che le prostitute paghino le tasse”.

Sì, Sandra, sarebbe giusto. Ma sarebbe pure giusto che l’Agenzia delle Entrate rilasciasse una partita Iva per la categoria “lavoratore autonomo del sesso”, che quel baraccone chiamato Stato non si nascondesse più dietro il dito della castità. Ché tanto ormai è abbastanza chiaro: a puttane ci va pure lui. Con la cartella esattoriale, ma ci va.


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